Vincenzo De Sensi e Flavio Valeri
IL SOLE 24 ORE – 12.05.2022
Dopo la grande crisi del 2008, i crediti non-performing, da “materiale di risulta” del processo industriale di lending delle grandi banche generaliste, sono diventati non solo un elemento strutturale del sistema economico del Paese, ma anche una nuova asset class oggetto di interesse da parte degli investitori istituzionali.
Secondo l’Ifis Market Watch nel 2020, su un totale di 330 miliardi di euro di non-performing exposures (Npe), 52 erano classificati come sofferenze nei bilanci delle banche, 52 come unlikey to pay (Utp) e scaduti – sempre sui libri dei gruppi bancari -, 203 erano sofferenze cedute e 23 Utp ceduti. Già oggi i crediti in sofferenza si trovano, per oltre i due terzi, nel Paese ma “fuori” dal sistema bancario. Nel 2023 ci si aspetta che su un totale previsto di 430 miliardi di Npe, 113 saranno – tra sofferenze, Utp e scaduti – sui bilanci delle banche, mentre 317 saranno detenuti da investitori e player specializzati.
In un simile contesto è chiaro che detenere e “lavorare” questo tipo di crediti incide sull’economia del Paese.
Peraltro, anche il sistema normativo si sta adeguando ai cambiamenti a cui assistiamo. Una chiave di lettura sta nella cosiddetta Direttiva Insolvency. In questi anni ci si è resi conto che il credito, soprattutto se deteriorato, non può essere considerato una entità astratta quasi come se i processi di finanziarizzazione fossero in grado di poter prescindere dalla sua dimensione sostanziale legata inevitabilmente ai flussi di recupero.
In effetti, il sistema economico e finanziario ha avuto il pregio di avere apportato significative innovazioni, mutando la prospettiva del credito da valore da recuperare a valore da scambiare; proprio questo apparente vantaggio ha però determinato l’esigenza, non sempre avvertita neppure dal regolatore, di guardare alla sostanza del fenomeno di per sé legata a una prestazione pecuniaria. Occorrono dunque dei correttivi che possano aiutare l’efficienza e l’equilibrio del sistema.
Un primo criterio guarda alla classificazione dei crediti deteriorati, secondo la disciplina europea. Ci si riferisce non soltanto alla distinzione tra non-performing loans (Npl) e Utp, quanto alla delicata applicazione delle misure di tolleranza o concessione (forborne exposures). Al riguardo rileva considerare che se le misure di tolleranza applicate a una determinata esposizione comportano per una banca una perdita significativa, intendendosi tale quella per un ammontare complessivo superiore all’1%, la banca deve classificare l’esposizione in default.
Le misure di tolleranza pensate in una visione accomodante nella gestione dell’esposizione finirebbero, però, esse stesse per generare posizioni deteriorate, disincentivando la banca a concedere tali misure.
Se pensiamo a quali possono essere gli effetti di tale criterio nel nostro sistema con l’attuale composizione negoziata della crisi o con la prossima entrata in vigore del codice della crisi, ne potrebbe risultare uno scenario non troppo rassicurante. Sarebbe dunque opportuno ripensare la soglia di rilevanza della perdita per la banca, in un’ottica di reale rischio per la stabilità patrimoniale.
Un secondo criterio guarda i soggetti che operano nel settore dei crediti deteriorati. Occorre pensare a un ampliamento del mercato degli Npe per agevolare l’ingresso e l’operatività non solo dei fondi statici che investono in asset-backed securities (Abs), ma anche i fondi di ristrutturazione degli imprenditori ceduti.
In altri termini la cessione del credito deteriorato non avverrebbe solo in un processo di finanziarizzazione, ma anche in un’ottica gestoria di un asset class. In questa prospettiva la sua redditività dipenderà dalle tecniche di ristrutturazione utilizzate, dal livello del loro successo e comunque tali da avere una tendenziale ricaduta positiva sul tessuto imprenditoriale.
Un terzo criterio potrebbe essere volto a calmierare i tassi di interesse sulla concessione di una nuova finanza nelle operazioni di ristrutturazione. Se, da un lato, è vero che queste operazioni presentano profili di rischio maggiore non solo in termini economico-finanziari, ma anche legali; dall’altro, però, i benefici fiscali che derivano dalla deducibilità delle perdite sui crediti ristrutturati potrebbe avere un effetto compensativo e di equilibrio per l’operatività dei fondi abilitati a concedere nuova finanza. Dovremmo dunque avviare processi di innovazione, anche normativa, in questo settore e non pensare soltanto ai risultati contingenti.
School of Law Luiss Guido Carli; Presidente Gardant