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Deutsche Bank, Valeri punta sull’Italia: “Il Paese va, nel credito altre fusioni”

di Andrea Greco
LA REPUBBLICA – 19.02.2018

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Il Chief Country Officer dell’istituto pensa che l’aria nuova in Europa allevierà debito pubblico e NPL nel 2018. Chi fa credito dovrà pensare ai prodotti e puntare sulle aggregazioni: “chi ha ricavi sotto i 5 miliardi non sopravviverà”.


 «L’ aria nuova che si respira in Europa con il miglioramento dell’economia e le nuove leadership politiche in Francia e Germania, contribuirà a risollevare le quotazioni dell’Italia, paese molto più forte di quel che appare. E può avere impatti decisivi sul contenimento del debito pubblico. Il rilancio del settore banche, passerà per un ripensamento dei modelli di business e nuove concentrazioni: come Spagna, Francia, Regno Unito avremo quattro poli a dividersi due terzi del mercato».

Flavio Valeri, dal 2008 a capo di Deutsche Bank Italia, custodisce gli oltre 90 miliardi del colosso tedesco nella Penisola. segue a pagina 18 Flavio Valeri, ammin. delegato di Deutsche Bank Italia. E lo fa con ottimismo. Ma un ottimismo condizionato, alla disciplina sui conti pubblici e a una selezione darwiniana per le piccole e medie banche tradizionali nostrane.

Cosa è cambiato da Bruxelles a Roma?

«Tanti segnali indicano che il paradigma dell’austerity, successivo alla crisi 2008, ha lasciato spazio al rafforzamento e completamento dell’unione bancaria e monetaria. Nel dicembre scorso la Commissione ha presentato l’agenda al 2025 sull’istituzione di un fondo monetario europeo, la regolamentazione degli accordi governativi sul fiscal compact, i nuovi strumenti di bilancio per la Commissione, il ministro delle finanze europeo. Temi da declinare, ma che indicano un percorso chiaro: e da come l’Italia prenderà parte alla discussione dipenderà molta della percezione sulla sua forza relativa nel contenere il debito pubblico e nel rilanciare le banche».

Niente più sorprese quindi? Non teme rischi di coda, per esempio sulle ristrutturazioni incomplete di Creval, Mps, Carige, Popolare Bari, Bcc?

«Gli investitori guardano già con occhi nuovi al settore e al mercato italiano, come attesta la tenuta recente delle quotazioni. Fino a poco tempo fa l’Italia era sinonimo di economia e conti pubblici in difficoltà, e banche zavorrate dal cattivo credito. Oggi un numero crescente di ricerche, che analizzano i principali parametri macro, rileva che con una crescita del Pil tra l’1,5 e il 2%, un’inflazione in avvicinamento al 2%, un avanzo primario tra 2,5 e 3%, possano in un decennio ridurre il rapporto debito/Pil dal 132% attuale al 100%. Tale dinamica libererebbe un grande valore sull’Italia, trattata a forte sconto sui mercati».

Le banche italiane però hanno ancora 170 miliardi lordi di sofferenze, malgrado lo smaltimento record da 70 miliardi nel 2017. Che ne faranno?

«Le nostre stime dicono che il 2018 potrebbe battere quel record, con altri 70 miliardi di euro di sofferenze in uscita, per ridurre a 100 miliardi le consistenze lorde di Npl (circa 40 sottraendo le rettifiche). E’ un dato enorme, che confermerà l’Italia il primo mercato d’Europa, e come Deutsche Bank ci vede protagonisti nel finanziare fondi compratori per una quindicina di miliardi».

Tanti miliardi richiederanno altri aumenti di capitale alle banche venditrici?

«Credo che le banche italiane abbiano ormai capitale sufficiente per concludere la pulizia creditizia senza chiedere altro denaro agli azionisti. Anche perché i prezzi delle cessioni di non performing loans, attorno al 15 per cento medio nel 2016, si sono gradualmente alzati al 20-25 per cento medio. I fondi compratori accettano tassi di rendimento anche al 7-10 per cento, per cui le banche venditrici hanno ridotto l’impatto sul capitale da circa 20 punti base a circa 10. Un trend molto importante, che per ora non si riflette sulle valutazioni del settore a Piazza Affari ».

Altri segnali però dicono che molti istituti, finita la pulizia, non avranno più la forza e le masse per tornare a fare utili sostenibili. Lei che cosa prevede?

«Per instradare bene i due nodi, sofferenze e debito pubblico, di cui gli istituti di credito sono forti investitori, serviranno 12-18 mesi. Lì verrà l’ora di curare il ritorno alla redditività, e per farlo andrà ribaltato il modello costruito negli anni ’90 puntando tutto sulla rete distributiva a discapito delle fabbriche prodotto. Da qualche anno la tecnologia ha spostato metà del business commerciale sui canali digitali minacciando la sopravvivenza degli sportelli, mentre spesso sono state cedute o esternalizzate le tipiche fabbriche prodotto (banca d’affari, credito al consumo, risparmio gestito, servizi all’export), per focalizzarsi sul credito all’impresa. Ma con la digitalizzazione e i tassi negativi proprio le fabbriche prodotto sono la fonte di redditività delle banche: vanno bene i grandi istituti come Intesa Sanpaolo, che hanno le fabbriche prodotto al loro interno, o le banche specializzate su una o più fabbriche, con costi di rete minimi».

Il rialzo dei tassi non rilancerà anche il modello di istituto di credito centrato sulla filiale?

«Credo che in Italia una banca indifferenziata possa ormai sopravvivere con ricavi tra 5 e 7 miliardi, una taglia che solo Unicredit e Intesa Sanpaolo superano oggi. Tutte le altre banche commerciali, un centinaio, dovranno aggregarsi per assumere dimensioni che consentano investimenti per ripulire gli attivi creditizi, potenziare le piattaforme tecnologiche e spesare il personale in esubero. Vedo in pochi anni la nascita di due nuovi grandi poli, e un mercato nazionale per due terzi controllato da quattro, più o meno come in Spagna, Francia, Gran Bretagna».

Saranno due poli intorno a Banco Bpm e a Ubi?

«Tutto è possibile: certo Banco Bpm e Ubi Banca hanno esperienza di aggregazioni, e una taglia di ricavi non lontana dai 5 miliardi che per me saranno, come le ho detto, il minimo indispensabile per sopravvivere».

Deutsche Bank in Italia ha anche 620 punti vendita. Vi interessa comprare nuovi marchi?

«Avendo già tutte le fabbriche prodotto, l’unica cosa che sarebbe per noi interessante è prendere nuovi clienti con accordi distributivi con le banche, come fatto di recente creando una società operativa con Ccb sul credito al consumo. Abbiamo sviluppato, per le banche universali, un prodotto che si chiama autobahn (autostrada, ndr) e offre soluzioni informatiche agli istituti di credito anche per le attività di mercato, tassi e cambi. Qui c’è grande potenziale per noi ed è molto più conveniente che fare acquisizioni».

Nel 2017 il gruppo Deutsche Bank ha perso 497 milioni, terzo rosso di fila. Le attività italiane come vanno?

«Il gruppo ha pagato, per una ventina di miliardi, l’impatto di multe e aggiustamenti contabili sulle attività americane, che spero da quest’anno siano sistemate. In Italia siamo presenti con tre società distinte – banca tradizionale, banca d’affari e risparmio gestito – che hanno tutte dinamiche positive e crescenti. È il nostro secondo mercato e abbiamo un tasso di crediti deteriorati al 5 per cento degli impieghi, il migliore insieme al Credem».

L’ad di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, dice che la vigilanza della Banca centrale europea si è troppo concentrata sui rischi creditizi e poco sugli attivi illiquidi level 3 tipici delle banche tedesche. Concorda?

«La Ssm controlla rischi di tre tipi: mercato, credito, operativi. Per una banca globale come la nostra sono gli operativi i più importanti: piattaforma tecnologica, cybersicurezza, contenziosi, controparte. Detto questo, gli attivi level 3 di Deutsche Bank a settembre erano 20 miliardi, l’1,4% dei 1.600 miliardi del bilancio totale». Flavio Valeri, chief country officer di Deutsche Bank Italia dal 2008.

© La Repubblica 2018